Sul Corriere di sabato 27/09/2025 c’è una bellissima intervista a Giovanni Allevi in cui raccontava come il momento della diagnosi sia stato per lui il più complesso: il mondo gli è crollato addosso, ma nello stesso tempo ha rappresentato il primo passo verso la guarigione.
La guarigione in oncoematologia è un processo lungo e articolato, caratterizzato da terapie complesse, protocolli di cura, trapianti, farmaci biologici e cicli di chemioterapia. La complessità dell’esperienza – che cela la straordinaria e meravigliosa complessità dell’essere umano nella sua dimensione fisica e psicologica – la si coglie nell’ambivalenza emotiva vissuta dal paziente.
La paura legata alla minaccia della malattia si intreccia con il timore della sofferenza. L’angoscia di cambiare aspetto si mescola al disorientamento degli spazi fisici ed emotivi. In questo intreccio complesso, ciò che viene intaccato è la capacità di sintonizzarsi con la bellezza della vita. Quando la persona non riesce più a stupirsi, riconoscersi e lasciarsi affascinare da quella bellezza, il disagio diventa sintomo: a volte gestibile, altre volte difficile da contenere
Ansia, insonnia, depressione, paura della recidiva, senso di perdita del controllo. Esperienze che emergono con maggior frequenza nelle storie di chi vive la malattia dentro una vita già segnata da fatiche precedenti. Non è raro, in questo scenario, che il paziente sperimenti un forte senso di irrequietezza accompagnato da intense attivazioni fisiche che finiscono per ostacolare il percorso di cura. In questi casi viene talvolta consigliato uno psicofarmaco capace di alleviare l’attivazione emotiva.
La proposta di ricorrere a uno psicofarmaco può però suscitare resistenze e diffidenza. Spesso i pazienti non vogliono aggiungere ulteriori farmaci a un elenco già lungo, oppure temono che accettare un sostegno farmacologico significhi “essere impazziti”. L’idea che il farmaco “per la mente” segni una frattura identitaria o possa cambiare la personalità dell’individuo resta, purtroppo, ancora radicata nella cultura collettiva.
In realtà, in oncologia e oncoematologia, i farmaci psichiatrici hanno un ruolo di sostegno prezioso. Non si tratta di “sedare” o di “anestetizzare”, ma di alleviare sintomi che compromettono la qualità della vita e persino l’aderenza alle cure: insonnia persistente, ansia che impedisce di affrontare i controlli periodici, depressione che sottrae energia vitale proprio nel momento in cui servirebbe maggiore resilienza.
Se ben prescritto e integrato in un percorso multidisciplinare, lo psicofarmaco diventa uno strumento, non un marchio identitario.
Uno specchio della società contemporanea
La diffidenza verso gli psicofarmaci non riguarda solo l’oncologia: è il riflesso di un atteggiamento più ampio della nostra società. Da un lato, viviamo in un’epoca che promuove la ricerca del benessere a tutti i costi, attraverso pratiche di self-care, mindfulness e discipline del corpo. Dall’altro, quando si parla di farmaci psichiatrici, il pregiudizio resiste: paura di dipendenza, timore di un cambiamento della personalità, stigma sociale.
Questo doppio registro — celebrare il benessere, ma diffidare dei mezzi clinici che possono favorirlo — rivela quanto sia fragile la nostra alfabetizzazione emotiva e psichiatrica. E soprattutto quanto siamo spaventati dall’idea di non stare bene, di non riuscire a far parte di un sistema che ci vuole sempre performanti, felici, resilienti. Anche, e paradossalmente, durante la malattia.
Dalla mia esperienza clinica e dal confronto con colleghi psichiatri ho compreso che ciò che spaventa davvero non è la possibilità di dipendenza o il rischio di “diventare altro”, ma il dover affrontare un dolore grande: il proprio. Siamo figli di una cultura che non ci ha insegnato a stare nella sofferenza, che ci spinge a negare il dolore per la perdita di un caro, a resistere a ogni costo di fronte alle avversità. Ricorrere a uno psicofarmaco, allora, tocca proprio il punto più fragile: il riconoscimento della vulnerabilità.
Non è una resa, ma un gesto di cura verso sé stessi. È la possibilità di alleviare la sofferenza senza negarla, di concedersi un sollievo che restituisce spazio alla vita. Ed è anche un’occasione per guarire, come comunità, dall’illusione che resistere sempre e comunque sia l’unica via possibile.

Dott.ssa Eleonora Criscuolo
Psicologa e Psicoterapeuta AIL Milano Monza Brianza


