In questo articolo della nostra rubrica vogliamo informarvi riguardo ad una delle maggiori innovazioni degli ultimi anni nel campo della terapia antitumorale. L’argomento che tratteremo è l’utilizzo del nostro stesso sistema immunitario come difesa contro il tumore. Il concetto di possedere dentro di noi la chiave per guarire dalla malattia è sicuramente affascinante ed i primi risultati ottenuti sfruttando questo principio danno buone speranze per il futuro prossimo.

 

L’idea di stimolare le nostre difese immunitarie contro il tumore ha origini antiche. Siamo infatti all’inizio del XX secolo quando il chirurgo americano William Bradley Coley (1862-1936) iniziava la sua carriera nel campo dei tumori dell’osso presso il centro Memorial Sloan Kettering Cancer Center. Durante i suoi primi anni di servizio, Coley osservava che diversi casi di tumore dell’osso re- gredivano, seppur limitatamente, a seguito di infezioni dei tessuti molli (erisipela) vicino all’area tumorale(1). Si delineò così la teoria per cui i pazienti che sviluppavano infezioni post-chirurgiche (ai tempi non esiste- vano gli antibiotici) ottenevano un controllo tumorale maggiore dovuto probabilmente ad una iperattivazione del sistema immunitario che, stimo- lato dai batteri, agiva anche contro le cellule tumorali.

Il chirurgo iniziò successivamente ad iniettare tossine batteriche vicino all’area tumorale (tossina di Coley) cercando di sollecitare questa risposta immunitaria. Ovviamente, la pericolosità di questa tecnica, la non sufficiente comprensione dei meccanismi di funzionamento del sistema immunitario e la casuale efficacia della metodica, fecero declinare l’interesse del mondo oncologico verso questo approccio in favore della chirurgia e della neonata radioterapia.

Il paradigma dell’oncologia medica rimarrà negli anni successivi focalizzato sul concetto di identificare ed attaccare il tumore tramite interventi o sostanze provenienti dall’esterno (chirurgia, radioterapia, chemio- terapia). Per quanto riguarda l’uso dei chemioterapici, ossia di sostanze prodotte con sintesi chimica, tale paradigma viene esasperato anche a seguito dell’introduzione degli antibiotici contro le infezioni batteriche durante gli anni ‘40. I miracolosi successi della penicillina, il “proiettile magico” in grado di guarire gran parte di quelle infezioni fino ad allora letali (polmo- niti, sifilide etc.etc.), fecero abbrac- ciare anche agli oncologi l’idea di creare ed utilizzare farmaci in grado di identificare ed eliminare le cellule tumorali.

Negli anni ’50 iniziò la produzione e l’utilizzo dei primi chemioterapici. Fin dai primi anni fu subito evidente come tali farmaci non fossero specifici e risolutivi come gli antibiotici. A fronte di una limitata efficacia, lo stesso in- cremento degli effetti collaterali era una prova tangibile della necessità di un approccio diverso, sovversivo per la cura dei tumori.

Mentre negli anni ‘70 e ‘80 si assisteva ad un uso sempre maggiore della chemioterapia nel trattare le patologie tumorali, parallelamente gli studi biologici sul funzionamento del sistema immunitario chiarivano progressivamente come nel nostro organismo fossero presenti sistemi di “vigilanza” sulle cellule malate. Bisognerà aspettare fino alla fine del XX secolo per avere finalmente una prova tangibile di come modulando il nostro sistema immunitario si possa attaccare il tumore, ovvero di come utilizzando risorse già presenti nel nostro corpo e non provenienti dall’esterno si possa controllare la cellula neoplastica.

La creazione di anticorpi in grado di riconoscere proteine espresse sulla membrana cellulare e di favorirne la loro distruzione costituisce la prima applicazione pratica della cosiddetta immunoterapia, il cosiddetto quarto pilastro della terapia antitumorale. Anticorpi diretti contro il recettore HER2/neu (espresso da certi tipi di cancro al seno) o contro la proteina CD20 (espressa da quasi tutti i linfomi a cellule B) migliorano drammatica- mente i risultati fino ad allora otte- nuti solo con chemioterapia, radiote- rapia o chirurgia fornendo una prova di come stimolando il nostro sistema immunitario si possano ottenere risul- tati terapeutici di rilievo(2).

 

Sulla scorta di questi risultati, gli studi riguardanti l’immunoterapia vengono spinti oltre. Se guardiamo al sistema immunitario come ad una macchina, possiamo notare come tutti i primi studi si siano focalizzati sul premere l’acceleratore. Creazione di anticorpi, di vaccini, di cellule in grado di identificare proteine anomale espresse dai tumori sono infatti delle tecnologie che giocano sul potenzia- mento del sistema immunitario. Ma se un’arma così potente contro il tumore è già dentro di noi, perché permette al tumore di svilupparsi? E perché questi primi farmaci immunologici non riescono a far guariredal tumore? La risposta arriva verso la fine degli anni ‘90 quando l’attenzione si sposta sull’inibizione che il tumore esercita sul nostro sistema immunitario addormentandolo(3). Infatti i cosiddetti meccanismi di immunovigilanza vengono perlopiù evasi dalla cellula neoplastica che riesce a non farsi riconoscere dal nostro sistema immunitario. Queste scoperte hanno risvolti pratici enormi. E’ infatti inutile premere l’acceleratore di una macchina con il freno tirato. Pertanto, l’attenzione si è spostata recentemente sul rilasciare i freni del sistema immunitario. Se immaginiamo i nostri sistemi di dife-sa come addormentati dal tumore, allora interrompere questo circolo vizioso porterebbe di nuovo le nostre difese a essere in grado di riconoscere le cellule malate.

Due sono gli approcci che recentemente sono stati sviluppati seguendo questo nuovo paradigma.
Il primo approccio punta a “risvegliare” i nostri globuli bianchi e a renderli nuovamente in grado di riconoscere le cellule tumorali. Anticorpi come ipilumumab, nivolumab o pembrolizumab per primi dimostrano come questo approccio possa portare a risultati sorprendenti in situazioni dove le opzioni terapeutiche scarseggiano. Nel campo dei tumori del sangue segnaliamo come l’utilizzo di nivolumab abbia portato ad una regressione di malattia in più dell’80% di pazienti con linfoma di Hodgkin pluritrattato(4), risultati non ottenibili con nessun’altra terapia attuale. Lo stesso approccio è attualmente in fase di sperimentazione clinica per altre neoplasie ematologiche i cui risultati saranno disponibili a breve.

Il secondo approccio punta invece a riprogrammare i globuli bianchi del nostro organismo in modo tale che siano in grado di riconoscere le cellule tu- morali e che possano attivarsi autonomamente senza essere influenzati dall’ambiente inibitorio tumorale. Questa vera e propria rivoluzione immunologica è nota con il nome di “CART cell” ovvero di “Chimeric Antigen Receptor T cell”.

In cosa consistono queste cellule CART? Il paziente viene sottoposto inizialmente ad una procedura di leucaferesi (filtrazione e selezione dei globuli bianchi dal sangue). I globuli bianchi estratti con questa procedura vengono modificati geneticamente in laboratorio e resi in grado di riconoscere una proteina espressa sulla cellula tumorale. Successivamente vengono reinfusi nel paziente generando una potente azione antitumorale. I vantaggi di questa tecnica sono quelli di essere estremamente specifica contro il tumore (la chemioterapia classica distrugge anche le cellule sane) e di avere una durata prolungata nel tempo proteggendo da potenziali recidive. Attualmente i pazienti trattati con questa metodica sono pochi, qualche centinaia nel mondo. Ciò che ha attratto l’attenzione sono stati i risultati sorprendenti ottenuti per primi su pazienti affetti da malattie ematologiche. Il primo studio clinico eseguito su bambini con leucemia linfoblastica acuta plurirecidivata ha dimostrato che fino all’80% di questi pazienti poteva ottenere risposte complete di malattia con sopravvivenza a lungo termine elevata(5). Se consideriamo che per questi piccoli pazienti non esisteva un’alternativa possiamo considerare miracoloso questo approccio. La stessa metodica è stata applicata su altri malati ematologici i cui risultati, sebbene non così brillanti come per la leucemia linfoblastica acuta, stanno scuotendo e meravigliando la comunità scientifica. Altre patologie ematologiche a cellule B come linfomi diffusi a grandi cellule, linfomi follicolari, leucemia linfatica cronica sono attualmente in fase sperimentale con le cellule CART.

A breve questa metodica sarà disponibile nel contesto di studi clinici anche in Italia fornendo finalmente un’altra opzione terapeutica ed una speranza per tutti quei pazienti che avendo fallito diverse linee di terapia non possono più contare su tratta- menti tradizionali per la loro malattia.

Dott. Alberto Mussetti
@albertomussetti
www.ailmilano.it

Bibliografia:

• (1)“The Treatment of Malignant Tumors by Repeated Innoculations of Erysipelas: With a Report of Ten Original Cases.” Coley WB, American Journal of the Medical Sciences 1893; 10: 487–511.

• (2)“IDEC-C2B8 (Rituximab) anti-CD20 monoclonal antibody therapy in patients with re- lapsed low-grade non-Hodgkin’s lymphoma.” Maloney DG et al., Blood 1997; 90: 2188–95.

• (3)“Enhancement of antitumor immunity by CTLA-4 blockade” Leach DR et al. Science 1996; 271:1734-36.

• (4)“PD-1 Blockade with Nivolumab in Relapsed or Refractory Hodgkin’s Lymphoma” Ansell SM et al., NEJM 2015; 372:311-319.

• (5)“Chimeric Antigen Receptor T cells for sustained remissions in leukemia”, Maude SL et al., NEJM 2015; 371:1507-17.

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