Cari sostenitori di AIL, con questo bollettino cogliamo l’occasione per presentarvi una nuova rubrica intitolata “Dalla parte del paziente”.
Questa sezione è stata pensata come un osservatorio sul mondo dell’oncologia dedicato a tutte quelle persone che non sono addetti ai lavori. Infatti, la rapida evoluzione del mondo scientifico in questo campo ha aumentato progressivamente la distanza tra medico e paziente. Quello che vogliamo fare è di informare, comunicare ed interagire con tutti voi affrontando quelle domande che troppo spesso restano senza risposta nella testa di chi non lavora in questo campo ma che per qualsiasi motivo ci si ritrova dentro.
E allora cerchiamo di guardare insieme verso l’oncologia e la sua rapida evoluzione DALLA PARTE DEL PAZIENTE, dalla parte di chi dovrebbe essere di fatto il beneficiario di tutti quei progressi medico-scientifici che servono a migliorare la vita delle persone affette da questo tipo di patologie.
“Dottore, sarò trattata come una “cavia”? Avrò delle tossicità eccessive con questo farmaco? Cosa mi consiglierebbe se fossi una sua parente?”.
Queste sono le domande di Laura, 33 anni, affetta da una rara forma di linfoma recidivato dopo una prima linea di terapia. Come per molti altri pazienti, quando viene proposto di partecipare ad uno studio clinico, molti dubbi e paure emergono nella mente della persona interessata.
In questo primo articolo della rubrica “DALLA PARTE DEL PAZIENTE” abbiamo voluto affrontare le domande che più spesso vengono poste al medico riguardo questo tema delicato.
1) Cosa è un trial clinico interventistico?
E’ uno studio in cui nuove terapie (farmacologiche o chirurgiche) vengono sperimentate sull’uomo per testarne l’effetto.
Esistono quattro diversi tipi di trial clinici, ognuno dei quali risponde ad una domanda. Gli studi di fase 1 valutano la tossicità e gli effetti collaterali di un trattamento su piccoli numeri di pazienti; gli studi di fase 2 valutano l’efficacia del trattamento su piccoli numeri di pazienti; gli studi di fase 3 comparano l’efficacia della nuova terapia con la miglior terapia attuale o con un placebo su grandi numeri di partecipanti; gli studi di fase 4 o di farmacovigilanza servono a controllare gli effetti collaterali del farmaco dopo la sua introduzione sul mercato. Ovviamente, prima di qualsiasi sperimentazione umana, ogni farmaco viene testato su cellule o tessuti cresciuti in vitro o su animali. Questa fase preclinica serve ad avere dei dati preliminari sull’efficacia e la sicurezza del nuovo composto prima di usarlo nell’uomo.
Sebbene la necessità di testare gli effetti di un farmaco sia indissolubilmente legata alla medicina fin dalle sue origini, il primo vero studio clinico strutturato viene fatto risalire all’uso della streptomicina per la terapia della tubercolosi (1). Questo primo trial era strutturato in modo tale che i pazienti venissero distribuiti in maniera casuale (randomizzazione) in due gruppi, uno in cui si testava la streptomicina e l’altro in cui veniva somministrato un placebo (una pillola di zucchero priva di effetti terapeutici). Inoltre, né il medico curante né il paziente sapevano se il farmaco somministrato fosse quello vero oppure no (metodo del doppio cieco). Da allora il metodo con cui la ricerca clinica si è sviluppata ha fatto molti progressi. Il mondo dell’oncologia è particolarmente legato a questa tematica, infatti la necessità di sviluppare farmaci efficaci contro i tumori ha richiesto un notevole sforzo anche nella progettazione e nella conduzione di numerosissimi studi clinici che ormai fanno parte della pratica quotidiana del medico oncologo.
2) Sarò usato come una “cavia”?
Il dubbio e la paura che una persona che prende parte ad uno studio clinico venga trattata come un animale da laboratorio sono molto diffusi nel nostro paese. Queste paure, infondate, sono sicuramente frutto di retaggi storici e di una comunicazione carente tra la comunità scientifica e la gente. Inoltre, abbiamo assistito negli ultimi anni ad un negativo influsso/intromissione dei mezzi di comunicazione all’interno di tematiche delicate come la sperimentazione medica con risultati catastrofici. Si ricordi per esempio il caso Di Bella ed il più recente caso Stamina dove, sulla base della sola risonanza mediatica, sono stati condotti in tempi estremamente rapidi studi clinici di metodiche che non avevano mai dimostrato una reale efficacia clinica, saltando tutti quei passaggi obbligati circa l’utilizzo di nuovi farmaci che servono invece a tutelare i pazienti da una eccessiva tossicità.
La tutela del paziente è uno dei principi su cui si basa la ricerca clinica. La nascita di un codice etico risale a subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Le prove che durante il regime nazista e giapponese venissero testati dei trattamenti sull’uomo senza nessun consenso, né sicurezza, né vantaggio per chi subiva tali sperimentazioni ha portato alla creazione del primo codice etico riguardante la ricerca clinica, il Codice di Norimberga (1947). In questo codice si evidenziava la necessità di ottenere un consenso informato da parte della persona che avrebbe partecipato ad uno studio clinico. Con la Dichiarazione di Helsinki (1965) si rendeva possibile la partecipazione ad uno studio clinico anche a chi non era in grado di comprendere adeguatamente un consenso informato previa autorizzazione di un tutore legale. Purtroppo, ulteriori episodi di mancata tutela del paziente hanno reso necessarie ulteriori modifiche del codice e in certi Stati la creazione di ulteriori norme regolatorie. Basti pensare allo studio condotto a Tuskegee (Alabama, USA) dove 400 afroamericani affetti da sifilide non furono curati per osservare le complicanze di questa malattia (2). Non solo gli studi clinici devono rispettare le norme etiche ma devono pure essere condotti secondo una metodologia standardizzata conosciuta come Good Clinical Practice ovvero ispirata ad uno standard internazionale di etica e di qualità necessari alla progettazione, alla conduzione, alla registrazione ed alle modalità di relazione degli studi clinici che interessano soggetti umani.
A che punto siamo oggi? Tutti gli studi che vengono proposti devono obbligatoriamente sottostare ai principi e alle regole derivate dai suddetti codici etici e regolatori. Inoltre, nessuno studio può iniziare se non è stato prima approvato da un comitato etico che è “un organismo indipendente, composto da personale sanitario e non (tre clinici, un medico di medicina generale/pediatra, un biostatistico, un farmacologo, un farmacista, un ingegnere clinico, il direttore sanitario o scientifico dell’ente ospedaliero, un esperto in materia giuridica o un medico legale, un esperto di bioetica, un infermiere, un rappresentante del volontariato per la tutela dei pazienti), incaricato di garantire la tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere dei soggetti della sperimentazione e di fornire pubblica garanzia di questa tutela, emettendo, ad esempio, pareri sul protocollo di sperimentazione, sull’idoneità dello o degli sperimentatori, sulle strutture e sui metodi e documenti da impiegare per informare i soggetti della sperimentazione prima di ottenerne il consenso informato” (3).
3) Correrò dei rischi tossici eccessivi?
Anche qui, come sopra, esiste ancora una forte associazione tra sperimentazione clinica e maggior rischio di tossicità. Sebbene le cause all’origine di questo pensiero ricorrente siano verosimilmente le stesse della domanda precedente, questa volta abbiamo dei dati reali su cui basarci per rispondere. La tossicità di un farmaco viene testata di solito negli studi clinici di fase 1 dove, a seconda della tollerabilità di un medicinale, si decide quella che viene definita la massima dose tollerabile o MTD. Di conseguenza, gli studi di fase 2 o di fase 3 presentano di solito un rischio tossico minore dei cosiddetti studi di fase 1. In quest’ultimo gruppo di studi, il rischio di decesso a causa di una tossicità del nuovo farmaco è passato dallo 0.5% durante gli anni ’90 ad uno 0.05% durante il decennio 2000-2005 (4). Se consideriamo che in campo oncologico gli studi di fase 1 sono di solito riservati a pazienti che hanno esaurito altre valide alternative terapeutiche, il rischio di una tossicità dello 0.05% è tollerabile rispetto alla certezza di una malattia altrimenti letale.
La riduzione della tossicità derivante da nuovi farmaci è imputabile ad una causa precisa. Oggi le cure mediche di supporto e l’assistenza al paziente sono notevolmente migliorate rispetto a vent’anni fa e anche la precisione dei nuovi farmaci è aumentata. Infatti, al contrario dei chemioterapici standard che colpiscono sia cellule tumorali sia cellule sane senza distinzione, le nuove molecole hanno come bersaglio dei meccanismi specifici della malattia tumorale evitando di danneggiare le cellule sane.
4) Che vantaggi avrò per me?
Dopo aver chiarito come sia cambiato radicalmente il profilo di sicurezza della sperimentazione clinica, parliamo dei vantaggi che puo’ ottenere chi prende parte ad uno studio. Lasciamo perdere i molteplici aspetti positivi che la comunità scientifica (e quindi i pazienti futuri) potra’ ottenere dai dati che emergono da un trial clinico e per una volta cerchiamo di essere “egoisti” e pensare ai possibili vantaggi che può ottenere il singolo paziente.
Per prima cosa consideriamo che le regolamentazioni ed i controlli che deve superare uno studio clinico prima di essere approvato fanno sì che la qualità di cura e l’assistenza assicurata dalla partecipazione ad esso siano in media più elevate che l’essere curati al di fuori di un contesto simile.
Il secondo punto è legato al possibile effetto terapeutico di un farmaco sperimentale. Anche qui gli studi di fase 1 rappresentano la categoria di sperimentazioni dove il rischio di un insuccesso terapeutico è più elevato. Anche in questo gruppo di studi, l’efficacia dei nuovi composti sta aumentando negli ultimi anni in virtù della migliore conoscenza biologica delle malattie tumorali. Mentre dal 2000 al 2005 quasi il 5% dei pazienti arruolati in questi studi otteneva una risposta effettiva dagli studi di fase 1, oggi si stima che questi valori possano essere intorno al 10% (5). Questi valori diventano più elevati negli studi successivi alla fase 1 quando gli stessi composti vengono somministrati in combinazione con altre terapie già note. Un esempio paradigmatico di come una molecola nuova possa portare ad un allungamento sostanziale della vita di un paziente è rappresentato da imatinib nella leucemia mieloide cronica. Prima dell’utilizzo di questa molecola, tutti i pazienti affetti da questa malattia andavano incontro ad un destino inesorabile e solo pochi di essi avevano qualche speranza di guarire se sottoposti ad un trapianto di midollo osseo. I primi 54 pazienti che vennero arruolati nello studio di fase 1 con imatinib avevano già fallito tutte (poche) le terapie disponibili al tempo per rallentare la malattia. In quel caso, più del 95% dei pazienti risposero in maniera estremamente positiva al nuovo farmaco e molti di questi pazienti sono tuttora vivi e in buona salute (6).
Dott. Alberto Mussetti
Specialista Ematologo
s.c. Ematologia – Trapianto di Midollo Osseo Dipartimento di Ematologia ed Onco-ematologia pediatrica Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori