“Remissione completa; gradualmente può riprendere la sua vita normale”.

Il tanto atteso momento è arrivato. Settimane, mesi, in alcune circostanze anni, trascorsi nell’attesa di ritornare alla vita, a quella vita bruscamente interrotta dal giorno indimenticabile della diagnosi.

“Remissione completa; gradualmente può riprendere la sua vita normale”.

Parole che nel loro insieme formano la frase tanto sperata. Eppure, nella mia esperienza clinica, il vissuto emotivo di quel momento non sempre trova un riscontro coerente con le aspettative iniziali. I pazienti spesso condividono questo tema e la domanda che mi viene posta in ambulatorio, e che prevarica sulla felicità e sul senso di gratitudine, ha la forma del timore di una vita normale fuori dal contesto ospedaliero.
Ma cosa vuol dire tornare alla vita normale, dopo un’esperienza di malattia onco-ematologica? Rispondere a questa complessa domanda richiede una doverosa premessa, a partire dalla posizione che la psicologia assume nei confronti del concetto di normalità. La psicologia -abbraccio in pieno la sua visione e mi reputo una grande tifosa di questa squadra- tende a convertire il concetto di normalità con quello di soggettività, intesa come l’appropriazione di un senso autentico e coerente tra il sentire e l’agire. È “normale” ciò che è sentito come proprio.

È normale prendere ottimi voti a scuola se questo è sentito come coerente con il proprio progetto di vita; non è “normale” prendere ottimi voti a scuola se questa azione genera sofferenza perché considerata come il mezzo per soddisfare le aspettative di qualcuno che non sei tu. Teniamo a mente questo orizzonte, ma ragioniamo ora di “normalità” fuori dalla dimensione della psicologia. Il mondo tende a considerare la normalità il frutto di un comportamento consueto rispetto a una serie di regole e imposizioni sociali. Pertanto, è normale andare a scuola, lavorare, praticare uno sport, avere tanti amici, avere un lavoro gratificante. Se tutto questo non si realizza, allora qualcosa non va e si gettano le basi per la definizione di un problema. La normalità, in fondo, conferma e rassicura. Abbiamo tutti bisogno di una serie di parametri di riferimento per sentirci bene e dalla parte giusta.
Nel caso di una persona immersa in un’esperienza oncologica, il parametro di normalità è funzionale a significare un evento inatteso come, ad esempio, una serie di sintomi e segni che nella loro improvvisa manifestazione, destano preoccupazione e scoramento. Nella mia esperienza clinica mi trovo spesso a normalizzare una serie di vissuti percepiti come “anormali” e a dare loro il senso di un processo reattivo. Questo lavoro è la conseguenza di una educazione emotiva “povera”, che ci porta a costruire associazioni emotive stereotipate: se sono guarito devo essere felice, se sono diventata mamma devo essere felice, se ho perso i documenti devo essere arrabbiato. Il nostro sentire è così ridotto al soddisfacimento di aspettative che riducono la nostra emotività a sana o patologica, a normale o anormale, a partire da una serie di imposizioni. La complessità dell’esistenza e del suo fluire che incontra eventi in cui può sperimentarsi un prospero arcobaleno di tonalità emotive che fa della nostra vita, la nostra vita, non è tenuto in considerazione. Pertanto non è così infrequente, e dunque normale, sentirsi smarriti e impauriti di fronte alla tanto attesa frase: “Remissione completa, può ritornare alla sua vita”. Ma quale vita? Quale ritorno? Ritornare alla vita ha a che fare con la competenza di progettarsi in un mondo che non si è accorto che quella persona era impegnata in un eterno presente e ingaggiata, per citare le parole di un mio caro paziente, a “sopravvivere a me stesso”.

Il mondo non si è accorto della sua temporanea assenza ed è andato avanti come se quella persona fosse sempre stata lì, a sua disposizione. E così, mentre il mondo procedeva sempre nella stessa direzione, quell’esistenza ha cambiato senso e ha imparato a progettarsi a partire da un ruolo che nulla ha di familiare con quello precedente. Quella persona è faticosamente diventata un paziente e lo è stato per molto tempo, quasi che riappropriarsi del proprio nome, del cartellino lavorativo, del dress code richiesto dai contesti di riferimento richieda una fatica che mai avrebbe pensato di dover affrontare. Qualcosa non ha funzionato? Non sei normale? Certo che sei normale. Uscire dall’ospedale e incontrare un mondo duro e a tratti inospitale, richiede un nuovo processo di adattamento. Ritornare alla vita, da un punto di vista psicologico richiede la messa a disposizione di una serie di elementi di stabilità capaci di creare una rete di sicurezza dentro cui riconoscersi.

Riconoscersi a fronte di una serie di limiti, soprattutto di natura fisica, imposti ad un paziente oncologico, non è un processo privo di ostacoli, specie se tale processo si scontra con i valori di una società che esalta l’efficienza, l’efficacia, il risultato e la velocità. Siamo nella società della performance in cui il riconoscimento e la realizzazione personale sono il frutto del risultato ottenuto. Per tali ragioni, una persona che a seguito di un’esperienza oncologica si approccia timidamente al mondo, potrebbe ritrovarsi sul banco degli imputati con l’accusa di essere stato malato ed “esiliato” dalla possibilità di usufruire di una serie di servizi – richiedere un mutuo, stipulare un’assicurazione, intraprendere un percorso di adozione – perché considerato precario ed esposto ad un rischio. Tale discriminazione oltre a definire una linea di confine tra il mondo dei malati e quello dei sani, ignora la complessità delle patologie oncologiche e ne accentua il suo carattere infausto.

Da queste premesse, associazioni di ex pazienti e di oncologi hanno lavorato per garantire il diritto alla dignità e alla parità di trattamento delle persone considerate “guarite” dalla malattia oncologica. Nasce così il diritto all’oblio il cui scopo è quello di superare lo stigma sociale del malato rendendogli accessibile una serie di servizi, ancora oggi, negata. Se è la normalità l’obiettivo a cui gli oncologi mirano, la nostra società si deve impegnare a garantire agli ex pazienti il diritto ad essere persone con bisogni lavorativi, sociali e familiari uguali a quelli di tutta la collettività. Questa necessità è stata colta dal Parlamento, che nel mese di agosto scorso ha approvato a Montecitorio il “diritto all’oblio”.

Un primo passo importante che “cura” e restituisce al paziente la possibilità di un nuovo inizio e la speranza di un possibile ritorno alla vita.

“Remissione completa, ritorni alla normalità”; forse, può iniziare a fare meno paura.

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