La malattia oncoematologica è una condizione umana da normalizzare e integrare all’interno di un’immagine socialmente condivisa di cura non solo del suo carattere fisico ma anche emotivo, sociale e culturale.
In questi ultimi anni abbiamo assistito, complice anche la divulgazione social da parte di personaggi pubblici -quali per citarne alcuni, Emma Bonino, Gianluca Vialli, Fedez, Giovanni Allevi, Michela Murgia-, a un processo narrativo portatore di una visione genuina e capace di ‘ri-attribuire’ umanità all’esperienza di malattia. Ripercorrendo brevemente le diverse forme di rappresentazione della malattia oncologica, una delle prime immagini socialmente condivise è quella di una maledizione di cui non si poteva parlare né enunciarne il nome: un “brutto male”.
La malattia si guadagnava così un posto di privilegio nei settori di esistenza considerati tabù, una situazione infausta per cui provare una vergogna socialmente condivisa. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a un processo di rivalutazione del concetto di malattia: “l’innominabile” viene espresso e compreso con una narrazione tipica della cultura bellica.
Condanna, guerra, armi, strategia, campo, battaglia, nemico: sono solo alcune delle parole selezionate e intrecciate in un arco narrativo che ha contribuito a convertire la diagnosi di malattia in una dichiarazione di guerra e il paziente in un vigoroso e impavido guerriero contro una sorte infausta.
Condanna, guerra, armi, strategia, campo, battaglia, nemico: sono solo alcune delle parole selezionate e intrecciate in un arco narrativo che ha contribuito a convertire la diagnosi di malattia in una dichiarazione di guerra e il paziente in un vigoroso e impavido guerriero contro una sorte infausta, ci troviamo di fronte a un timido processo che porta all’attenzione la malattia nella sua accezione di condizione esistenziale. Il paziente si riappropria del suo ruolo e delle sfumature emotive correlate -dolore, paura, preoccupazione, sconforto, speranza-. Si riconosce in vissuti emotivi tipici dello “stare” in una dimensione esistenziale che prevede un tempo definito dall’attesa, in cui il confronto con la propria sofferenza e con la propria morte diventa possibile, una fine che si fa elemento fondativo di vita.
Da un punto di vista psicologico considerare la malattia come condizione umana, fa del paziente una persona che vive, patisce, soffre, spera; presente e attiva in modo autentico, responsabile e funzionale al processo di adattamento. Dall’osservatorio dell’Ambulatorio di supporto psicologico di AIL Milano, mi è possibile entrare in contatto con vissuti annessi all’esperienza di malattia che spesso vengono configurati e raccontati a partire da un’invalidante dicotomia di forza e debolezza. Infatti, la sofferenza pare essere il frutto dell’impossibilità sperimentata dal paziente, ad un certo punto del suo percorso terapeutico, nel riconoscersi nell’immagine del forte e impavido soldato. La visione del guerriero, seppur funzionale nel breve periodo, può, a distanza di tempo, diventare distruttiva e invalidante di un sentire che invece è meritevole di attenzione e cura. Il percorso di una malattia oncoematologica è caratterizzato da lunghi periodi di trattamenti che possono prevedere varie linee terapeutiche -tra cui, ad esempio, la possibilità di incorrere in periodi di isolamento dal mondo- che possono generare una serie di vissuti significativamente contrastanti con l’immagine di sé di impavido guerriero.
A quel punto, oltre a sentirsi distrutti dal nemico, ci si sente sprofondare nella dimensione esistenziale di debolezza non considerata come condizione emotiva possibile e non riconosciuta dall’esterno. Da un punto di vista psicologico potremmo ritrovarci di fronte ad un momento di crisi per il paziente il cui rimando di sé è definito a partire da frasi quali “Ti vedo proprio bene”, “Sei proprio forte”, “Non so dove hai trovato il coraggio”.
Il paziente, seppur gratificato sente del contrasto perché non si vede proprio bene, non si sente così forte ma anzi si percepisce stanco, affaticato e impossibilitato a deludere le aspettative di chi crede in lui. Lui stesso per primo.
L’idea della forza, dunque, oltre a rappresentare un fattore che rischia di ridurre la sofferenza a patologia, può gettare il paziente nella più profonda inautenticità del proprio essere con possibili risvolti negativi anche sul senso di speranza e fiducia.
Per concludere, mi sento di poter abbracciare, e di assumermene la responsabilità in qualità di clinico della salute mentale, una visione della malattia oncoematologica come condizione umana da normalizzare e integrare all’interno di un’immagine socialmente condivisa di cura non solo del suo carattere fisico ma anche emotivo, sociale e culturale. Una società che parla della malattia, si fa portatrice di un pensiero alto che educa alla cura del proprio essere nel mondo in modo attivo, critico, pensante. Un pensiero capace di – mi permetto di prendere in prestito le parole di Virginia Woolf – “figurare la malattia insieme all’amore, alle gelosie, tra i temi principali della letteratura […] considerato quanto sia comune la malattia”.
Questo è possibile.
In piccola parte lo stiamo già facendo.
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Dott.ssa Eleonora Criscuolo
Psicologa e Psicoterapeuta presso la Psicologia Clinica dell’Istituto Nazionale dei Tumori e dell’Ambulatorio di Supporto Psicologico AIL Milano Monza Brianza.