LINFOMI DI HODGKIN
I linfomi sono tumori del sangue caratterizzati dalla proliferazione neoplastica di alcune cellule del sistema immunitario chiamate linfociti di tipo B (80-85%), di tipo T (15-20%) o cellule natural killer (NK, più rari).
Si suddividono in due categorie:
- Linfomi di Hodgkin
- Linfomi non Hodgkin
I linfomi di Hodgkin (descritti per la prima volta nel 1832 da Thomas Hodgkin) rappresentano circa il 10-15% di tutti i linfomi diagnosticati ogni anno.
INCIDENZA
In Italia ogni anno si ammalano di linfoma di Hodgkin circa 3-4 persone ogni 100.000 abitanti, con una lieve prevalenza nei soggetti di sesso maschile (soprattutto dopo i 25 anni di età).
Il linfoma di Hodgkin ha due picchi di incidenza: il primo intorno ai 20-30 anni e il secondo intorno ai 70 anni di età.
SINTOMI E SEGNI
Tra i sintomi e i segni del linfoma di Hodgkin si osservano:
– ingrossamento non dolente dei linfonodi, più frequentemente a livello laterocervicale (collo), sovraclaveare, ascellare inguinale.
– stanchezza persistente
– febbre ricorrente
– sudorazioni, soprattutto notturne
– prurito in assenza di lesioni cutanee o non spiegato da altre cause
– perdita di peso
CAUSE
Sebbene siano state avanzate diverse ipotesi sulla possibilità che alcuni fattori ambientali, in particolare di tipo occupazionale, possano contribuire a causare l’insorgenza dei linfomi di Hodgkin, al momento attuale non esistono dimostrazioni precise in merito. Una possibile eziologia virale trova sostegno nella osservazione che alcuni casi di linfoma di Hodgkin sono associati all’infezione con il virus di Epstein-Barr; ciò nonostante, il ruolo preciso di questo virus nel causare una predisposizione o l’insorgenza della malattia è ancora oggetto di studio.
L’incidenza del linfoma di Hodgkin è maggiore nei soggetti sieropositivi per il virus HIV; tuttavia questo virus non sembra essere direttamente implicato nella genesi del tumore.
DIAGNOSI
La diagnosi di linfoma di Hodgkin necessita di una biopsia eseguita a livello di un linfonodo ingrossato o di un organo non linfatico interessato dalla malattia. All’esame microscopico è possibile osservare la presenza di cellule caratteristiche, denominate cellule di Reed-Sternberg, o di cellule di Hodgkin. Oltre a queste cellule, nelle sedi interessate dal linfoma di Hodgkin, si osserva una importante proliferazione di linfociti normali, di significato reattivo.
Dal punto di vista istologico, esistono due gruppi di Linfoma di Hodgkin: la forma classica, a sua volta suddivisa in quattro sottotipi (sclerosi nodulare, cellularità mista, ricco in linfociti e deplezione linfocitaria) e il linfoma di Hodgkin a predominanza linfocitaria nodulare, che rappresenta circa il 5% dei linfomi di Hodgkin e che differisce per caratteristiche istologiche e per trattamento.
Non è raro che il linfoma di Hodgkin si presenti con masse linfonodali molto grosse, anche più di 10 cm, in particolare a livello mediastinico (sopra il cuore); in questo caso la malattia si definisce “bulky”.
STADIAZIONE (estensione della malattia)
Oltre ad un’accurata visita medica, per determinare l’estensione della malattia al momento della diagnosi è necessario sottoporre il paziente a varie indagini strumentali, come la TAC (tomografia assiale computerizzata) con mezzo di contrasto e in alcuni casi la RMN (risonanza magnetica nucleare). In questo modo è possibile determinare con esattezza la localizzazione, la dimensione, e la distribuzione dei linfonodi interessati dalla malattia e l’eventuale coinvolgimento di organi non linfatici (come ad esempio il polmone).
Fondamentale è l’impiego della PET (tomografia ad emissione di positroni), che ha assunto un ruolo centrale nella valutazione dell’estensione della malattia all’esordio e nel guidare il trattamento di questa malattia.
Al momento della diagnosi vengono inoltre eseguiti esami ematochimici (in particolare l’emocromo, la VES, l’LDH, gli esami di funzionalità epatica e renale) ed indagini che hanno lo scopo di valutare lo stato di salute del paziente, come l’ecocardiogramma; solo raramente è necessario eseguire l’esame del midollo osseo.
Con l’esito di queste indagini è possibile determinare lo stadio della malattia:
- Stadio I: coinvolgimento di un unico linfonodo, di un’unica stazione linfonodale oppure di un singolo organo extranodale (in quest’ultimo caso lo stadio viene denominato “I E”)
- Stadio II: coinvolgimento di due o più stazioni linfonodali vicine (ad esempio, tutte nel collo e nel torace, oppure tutte nell’addome).
- Stadio III: coinvolgimento di multiple stazioni linfonodali sia a livello sovradiaframmatico (collo/torace) che sottodiaframmatico (addominale o inguinale).
- Stadio IV: coinvolgimento esteso di multiple stazioni linfonodali e di altri organi extra-linfonodali, come ad esempio i polmoni, il fegato o le ossa.
Ognuno di questi quattro stadi della malattia viene a sua volta suddiviso in due categorie, chiamate “A” o “B”, a seconda della presenza o assenza di sintomi sistemici (febbre, sudorazioni profuse, perdita di peso). Inoltre, se è presente una massa di dimensioni importanti, allo stadio si affianca la parola “bulky”.
L’estensione della malattia (stadio) e la presenza di sintomi B sono determinanti per scegliere il tipo di trattamento, che può essere più o meno aggressivo (chemioterapia o immunochemioterapia seguiti o meno da radioterapia).
TERAPIA E SOPRAVVIVENZA
Gli stadi iniziali favorevoli (cioè malattie localizzate e senza fattori prognostici negativi) di linfoma di Hodgkin classico possono beneficiare di due cicli di chemioterapia seguiti da radioterapia “involved field”, ossia utilizzando tecnologie volte a convogliare il più possibile le radiazioni sui linfonodi coinvolti “risparmiando” i tessuti circostanti. Lo schema terapeutico più utilizzato si chiama ABVD e comprende i seguenti chemioterapici: doxorubicina, bleomicina, vinblastina e dacarbazina. Ogni ciclo di terapia dura 28 giorni e prevede una somministrazione di terapia goni 14 giorni.
In caso di stadi iniziali sfavorevoli o di stadi avanzati, il programma terapeutico prevede l’impiego di 4 o 6 cicli di chemioterapia associati o meno a radioterapia. In questi casi è raccomandato l’utilizzo della PET dopo 2 cicli di terapia per valutare la risposta iniziale ed eventualmente intensificare il trattamento in caso di risposte non ottimali.
Inoltre, da pochi anni, per i pazienti in stadio IV, è stato approvato un farmaco chiamato Brentuximab-vedotin, un anticorpo anti-CD30 (una proteina espressa dalle cellule del linfoma di Hodgkin) coniugato a una sostanza tossica che viene liberata quando questo anticorpo si lega alle cellule tumorali. Questo nuovo farmaco viene associato a doxorubicina, vinblastina e dacarbazina.
Un caso particolare è costituito dal linfoma di Hodgkin a predominanza linfocitaria nodulare, che ha mostrato ottimi tassi di risposta con la chemioterapia secondo schema R-CHOP (rituximab + ciclofosfamide, vincristina, doxorubicina e prednisone), solitamente utilizzata nei linfomi non Hodgkin.
L’efficacia della terapia dipende in gran parte dall’età del paziente e dall’estensione della malattia (stadio) al momento della diagnosi; in genere, il 75-80%% dei pazienti raggiunge la guarigione. In caso di malattia progressiva e refrattaria ai trattamenti prima descritti, si può ricorrere a trattamenti chemioterapici più aggressivi seguiti, nei pazienti più giovani, dal trapianto di cellule staminali emopoietiche autologhe. Questa procedura consiste nel raccogliere le staminali del paziente tramite una procedura chiamata “aferesi” dopo aver eseguito una stimolazione con fattore di crescita granulocitario, preceduta o meno da una chemioterapia di mobilizzazione. Le cellule staminali sono così indotte a lasciare il midollo osseo e ad entrare in circolo. Con un particolare macchinario queste cellule si possono isolare e raccogliere all’interno di sacche che vengono congelate per poi essere scongelate e reinfuse nel paziente previa somministrazione di una chemioterapia detta “di condizionamento”.
In caso di malattia refrattaria o recidivata dopo il trapianto autologo di cellule staminali emopoietiche, attualmente sono approvati diversi farmaci, come il brentuximab-vedotin, e gli inibitori dei checkpoint immunitari dell’asse PD1-PD1L, pembrolizumab e nivolumab. Questi farmaci agiscono facendo in modo che il sistema immunitario del paziente possa riconoscere ed eliminare le cellule tumorali. Nei pazienti giovani recidivati/refrattari a terapia comprensiva di trapianto autologo deve essere inoltre considerato il trapianto di cellule staminali da donatore come opzione terapeutica.
Oltre alle terapie approvate attualmente in uso, altre strategie terapeutiche sono in fase di sviluppo nell’ambito di protocolli di studio.
Dott.ssa Francesca Rezzonico
Specialista Ematologa UOC Ematologia
Ospedale di Legnano, ASST Ovest Milanese
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