LINFOMI NON HODGKIN

I linfomi sono tumori del sangue caratterizzati dalla proliferazione neoplastica di alcune cellule del sistema immunitario chiamate linfociti di tipo B (80-85%), di tipo T (15-20%) o cellule natural killer (NK, più rari).

Si suddividono in due categorie:

  • Linfomi di Hodgkin
  • Linfomi non Hodgkin

I linfomi non Hodgkin vengono classificati in diversi sottotipi, a seconda delle loro caratteristiche biologiche e cliniche. Si distinguono, in base alla velocità di crescita, in linfomi a basso grado di malignità (indolenti), o ad alto grado (aggressivi). Il trattamento dei linfomi non Hodgkin dipende dal sottotipo, dallo stadio di malattia, dall’età e dallo stato di salute del paziente.

INCIDENZA

Attualmente, in Italia, linfomi non Hodgkin rappresentano il 3% di tutte le neoplasie; si stimano circa 13000 nuovi casi in un anno, con un’incidenza lievemente maggiore nel sesso maschile rispetto al femminile. L’incidenza aumenta progressivamente con l’età. Tuttavia, nonostante questi dati, i progressi fatti nello sviluppo di nuove terapie hanno fatto sì che la mortalità sia rimasta sostanzialmente stabile negli ultimi anni.

SINTOMI E SEGNI

Uno dei segni più comuni del linfoma non Hodgkin è l’ingrossamento di un linfonodo, più frequentemente a livello del collo, di un’ascella, o dell’inguine, oppure di linfonodi situati nell’addome o nel torace. Raramente, invece, la malattia può manifestarsi in organi diversi dai linfonodi, come le ossa, i polmoni o la cute. In questi casi la malattia può presentarsi con sintomi di accompagnamento correlati alla sede interessata dalla malattia: ad esempio, il paziente può riferire dolori ossei in caso di interessamento scheletrico, tosse o affaticamento del respiro in caso di interessamento polmonare, arrossamenti e lesioni della pelle in caso di interessamento cutaneo. I sintomi “classici”, definiti anche “sintomi B” o “sintomi sistemici” sono rappresentati da febbre/febbricola serotina ricorrente, sudorazioni profuse prevalentemente notturne e calo significativo di peso; a questi possono associarsi stanchezza e perdita di appetito. Talvolta durante la visita medica o all’ecografia dell’addome si rileva l’ingrossamento della milza. Nelle forme indolenti non è raro che la diagnosi sia occasionale e che il paziente non accusi alcun sintomo; diversamente, spesso la diagnosi di linfomi non Hodgkin aggressivi è accompagnata da sintomi più o meno specifici.

CAUSE E FATTORI DI RISCHIO

Nella maggior parte dei casi lo sviluppo della malattia è legato a mutazioni che insorgono casualmente nel tempo e che, accumulandosi, vanno a interferire con la normale maturazione, proliferazione e regolazione dei linfociti.  Tuttavia, è stato dimostrato come l’insorgenza di alcuni sottotipi di linfoma non Hodgkin sia sostenuta da eventi infettivi; ne sono un esempio il linfoma MALT gastrico, legata all’infezione da Helicobacter Pylori, oppure il linfoma di Burkitt in Africa, legato all’infezione da Virus di Ebstein-Barr. Anche il virus dell’epatite C è coinvolto nell’insorgenza di alcuni tipi di linfoma non Hodgkin.

Inoltre, è stato dimostrato che nei soggetti HIV positivi l’incidenza di linfomi è più elevata rispetto ai soggetti HIV negativi. Oltre ad alcune infezioni, è noto come anche alcune patologie autoimmuni siano associate all’aumento di incidenza di linfomi.

DIAGNOSI

È importante ricordare che nella maggior parte dei casi l’ingrossamento di un linfonodo è espressione di una reazione ad un’infezione in corso, e non di un processo tumorale. Un ascesso dentario, ad esempio, può provocare l’ingrossamento dei linfonodi sottomandibolari. Il linfoma deve essere sospettato quando non si hanno evidenze di stati infiammatori o infettivi in atto, oppure se dopo un’adeguata terapia antibiotica le dimensioni del linfonodo non si sono modificate o sono addirittura incrementate. Tipicamente, inoltre, a differenza dei linfonodi infiammatori, i linfonodi patologici sono di consistenza dura (“lignea”), non dolenti al tatto, di forma tondeggiante e poco mobili rispetto agli altri tessuti, per cui un’accurata visita medica spesso permette di porre il sospetto di linfonodo patologico. L’esame ecografico mirato è estremamente utile per distinguere un linfonodo patologico da uno infiammatorio; la diagnosi di certezza, tuttavia, si ottiene solo mediante la biopsia del linfonodo ingrossato o dell’organo coinvolto nel processo neoplastico. Spesso le biopsie dei linfonodi più superficiali possono essere eseguite in anestesia locale, mentre il ricorso all’anestesia generale viene riservato ai casi in cui essa debba essere eseguita su organi interni oppure su linfonodi più profondi (ad esempio toracici o addominali).

Una volta ottenuto il pezzo da esaminare, questo viene accuratamente preparato per l’analisi al microscopio da parte del patologo: è innanzitutto necessario capire il tipo di cellule coinvolte (linfociti B, linfociti T o cellule NK). Le ulteriori analisi sul pezzo bioptico sono volte a identificare il tipo di alterazione tissutale ed eventuali alterazioni genetiche, arrivando in questo modo ad ottenere una diagnosi più precisa possibile.

Con l’evoluzione delle tecnologie diagnostiche e di una più approfondita conoscenza della biologia di queste malattie, si sta assistendo ad una sempre più precisa classificazione dei linfomi non Hodgkin: ne esistono infatti più di 50 sottotipi, ognuno con le proprie caratteristiche cliniche, istologiche e biologiche.

I linfomi che possiedono un comportamento clinico meno aggressivo sono definiti linfomi indolenti; i più frequenti sono:

– Il linfoma follicolare: solitamente si presenta con scarsi sintomi, e per questo motivo non è raro che venga diagnosticato in stadi avanzati, con coinvolgimento del midollo osseo o con adenopatie di grandi dimensioni.  Dal punto di vista genetico è caratterizzato dalla traslocazione cromosomica t(14;8), presente in circa l’85% dei casi, che causa l’attivazione del gene tumorale BCL2.

– Il linfoma linfocitico: microscopicamente le cellule si presentano come quelle caratteristiche della leucemia linfatica cronica; si distingue da questa per la localizzazione prettamente linfonodale (ossia i linfociti patologici sono localizzati nei linfonodi, mentre nel secondo caso si trovano prevalentemente in circolo).

– Il linfoma della zona marginale extranodale tipo MALT: spesso si localizza a livello delle pareti dello stomaco, in associazione all’infezione da H. pylori; in questi casi, spesso, se la malattia è limitata al coinvolgimento dello stomaco, l’eradicazione del batterio tramite terapia antibiotica specifica permette la guarigione dal linfoma. Un altro tipo di linfoma marginale, quello  splenico, è invece spesso associato ad infezione da HCV.

I più frequenti linfomi aggressivi sono:

– Il linfoma B diffuso a grandi cellule: spesso si presenta con sintomatologia sistemica, grosse masse e coinvolgimento anche di organi extranodali. Nella maggioranza dei casi insorge de novo, ma talvolta è il risultato di un processo di trasformazione da linfomi indolenti. Il trattamento di prima scelta è rappresentato da immunochemioterapia associata o meno a radioterapia, ed eventualmente il programma di cura può essere intensificato in base all’espressione di determinati marcatori genetici. A volte questo tipo di linfoma si localizza a livello del sistema nervoso centrale: in questi casi è necessario utilizzare terapie specifiche che riescano a passare la barriera ematoencefalica, che ha la funzione di proteggere l’encefalo dagli agenti tossici e nocivi che possono entrare in circolo.
– Il linfoma mantellare: è caratterizzato dalla traslocazione cromosomica t(11;14) che causa l’attivazione del gene CCND1. Questo linfoma può coinvolgere, oltre a linfonodi e organi extranodali, anche il midollo osseo e talvolta il sangue (linfoma leucemizzato). I pazienti più giovani vengono solitamente avviati a un trattamento chemioterapico più intensificato seguito dall’autotrapianto di cellule staminali emopoietiche.

STADIAZIONE (estensione della malattia)

Una volta che la diagnosi di linfoma è stata confermata dall’esame istologico, è molto importante definire l’estensione della malattia nell’organismo. Si effettua, cioè, la cosiddetta “stadiazione” mediante indagini che comprendono la tomografia assiale computerizzata (TAC) e, talvolta, la risonanza magnetica nucleare (RMN), che permettono di identificare l’eventuale presenza di linfonodi profondi, o il coinvolgimento di organi come il fegato, la milza, i polmoni, i reni, e permettono di definire le dimensioni delle lesioni. Nei linfomi aggressivi e in alcuni tipi di linfomi indolenti è fondamentale l’impiego della PET (tomografia ad emissione di positroni), che, abbinata alla TAC, consente di determinare il grado di attività metabolica del linfoma e che viene utilizzata come termine di confronto per determinare la risposta ai trattamenti.

Alla diagnosi vengono inoltre eseguiti esami ematochimici (emocromo con formula leucocitaria, funzione epatica e renale, LDH) e, in alcuni casi, l’esame del midollo osseo per valutare l’eventuale coinvolgimento di questo tessuto. In casi particolari, per il tipo di linfoma o per la presenza di eventuali segni e sintomi che facciano sospettare il coinvolgimento del sistema nervoso centrale, può essere necessario completare la stadiazione con una puntura lombare, o rachicentesi, e con indagini radiologiche mirate (ad es. la TAC dell’encefalo). Altrettanto fondamentale è eseguire indagini volte a determinare lo stato di salute del paziente e la sua capacità di tollerare le terapie proposte, come l’ecocardiogramma.

La stadiazione è molto importante, poiché insieme al sottotipo è il più importante fattore prognostico ed è fondamentale per le decisioni in merito al tipo di trattamento da adottare.

Schematicamente, gli stadi vengono così definiti (classificazione di Ann Arbor):

  • Stadio I: coinvolgimento di un’unica stazione linfonodale o di un singolo organo extralinfonodale.
  • Stadio II: coinvolgimento di due o più stazioni linfonodali dallo stesso lato del diaframma, ossia tutte nel collo e nel torace (sovradiaframmatiche), oppure tutte nell’addome (sottodiaframmatiche).
  • Stadio III: coinvolgimento di multiple stazioni linfonodali nel collo, nel torace, e nell’addome.
  • Stadio IV: coinvolgimento esteso di multiple stazioni linfonodali e di altri organi extra-linfonodali, come ad esempio i polmoni, l’intestino, il fegato o le ossa.

 

TERAPIA E SOPRAVVIVENZA

Lo scopo della terapia nei linfomi è quello di eliminare il maggior numero possibile di cellule tumorali, raggiungendo, se possibile, uno stato di remissione completa (ossia la scomparsa di ogni evidenza di malattia) che in alcuni casi equivale alla guarigione completa. È importante sottolineare come non tutti i linfomi necessitino di un trattamento al momento della diagnosi; questo accade soprattutto nei linfomi indolenti in stadi iniziali e asintomatici, in cui può essere necessario il solo monitoraggio clinico e strumentale (con visite ed ecografie periodiche): questo atteggiamento viene definito “watch and wait”. Talora, i linfomi indolenti in stadi localizzati possono essere trattati con radioterapia localizzata. Quando invece i linfomi indolenti vengono diagnosticati in stadio avanzato o con masse dimensionalmente importanti (definite “bulky”) oppure quando si pone diagnosi di linfoma aggressivo, il trattamento si basa sulla chemioterapia talora associata alla radioterapia, a seconda della dimensione, della sede, e del sottotipo istologico. Generalmente la chemioterapia si basa sull’utilizzo di combinazioni di più farmaci a differente meccanismo di azione. Questa strategia aiuta ad impedire che nelle cellule linfomatose si sviluppi una resistenza ai farmaci stessi. La chemioterapia viene somministrata a cicli, ogni tre o quattro settimane, e la durata del trattamento varia a seconda dei cicli necessari: generalmente richiede 6-12 mesi prima di essere completato. Lo schema più utilizzato si basa sulla combinazione di ciclofosfamide, adriamicina, vincristina e prednisone (CHOP). A questi chemioterapici si aggiunge, nel caso di un linfoma a cellule B, l’utilizzo di un anticorpo anti CD20, una proteina che spesso si trova espressa sulla membrana dei linfociti B. Capostipite di questa categoria è stato il Rituximab, farmaco attualmente utilizzato nella quasi totalità degli schemi terapeutici dei linfomi B poiché è in grado di migliorare notevolmente l’efficacia della sola chemioterapia.

In alcuni sottotipi di linfoma, il trapianto autologo di cellule staminali emopoietiche (raccolte dallo stesso paziente) permette di incrementare la percentuale di remissioni complete, ossia guarigioni. Le cellule staminali del paziente vengono indotte a lasciare il midollo osseo e ad entrare in circolo grazie alla stimolazione con un fattore di crescita granulocitario preceduto o meno da una chemioterapia detta “di mobilizzazione”. La procedura di raccolta delle staminali si chiama aferesi: questa dura in genere 3-5 ore, e generalmente il numero di leucoaferesi necessarie ad ottenere un numero sufficiente di cellule staminali varia da 1 a 3. Le cellule staminali emopoietiche, una volta raccolte, vengono congelate e conservate in azoto liquido fino al momento della reinfusione, quando si provvede al loro scongelamento. La reinfusione di cellule staminali è preceduta da una chemioterapia ad alte dosi detta “di condizionamento”, che ha l’obiettivo di eliminare eventuali residui di malattia. Le staminali reinfuse sono in grado di migrare nelle lacune midollari e proliferare consentendo la produzione delle cellule del sangue.

Il trapianto di cellule staminali da donatore (allogenico) viene riservato a casi particolari di malattie non responsive o recidivate dopo procedure di trapianto autologo e in pazienti giovani che abbiano a disposizione un donatore familiare o da registro. Il trapianto allogenico, rispetto al trapianto autologo, offre il vantaggio di unire all’effetto terapeutico delle alte dosi di chemio- e/o radioterapia, un ulteriore effetto antitumorale svolto da un sistema immunitario “nuovo”, cioè quello del donatore.

Le CART rappresentano un’innovativa opzione per i pazienti recidivati/refrattari: è una terapia che utilizza tecniche di ingegnerizzazione dei linfociti T del paziente che vengono prelevati, “addestrati” a riconoscere le cellule tumorali e successivamente reinfusi.

Un’altra possibilità è rappresentata dagli anticorpi bispecifici: farmaci “intelligenti” in grado di riconoscere le cellule del linfoma e favorire l’attacco da parte del sistema immunitario del paziente; alcune di queste molecole sono in fase di studio nell’ambito di protocolli che coinvolgono pazienti con linfomi sia indolenti che aggressivi recidivati/refrattari.

Dott.ssa Francesca Rezzonico

Specialista Ematologa UOC Ematologia

Ospedale di Legnano, ASST Ovest Milanese

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